martedì 3 novembre 2015

SPRINGSTEEN, PORTELLI E UN INCONTRO SULL'AMERICAN DREAM



Mercoledì 4 novembre, all’Accademia di Belle Arti di Napoli è in programma una giornata di studio per riflettere sull’american dream e sulle sue promesse mancate, attraverso la musica, il cinema, la letteratura e la storia sociale.
Intitolata opportunamente Bruce Springsteen e lo “sfuggente sogno americano” (con riferimento a quel “runaway american dream” citato nella hit Born to Run) e organizzata dal Triennio di Fotografia, Cinema e Televisione (cattedre di Storia e teoria dei nuovi media e Teoria e analisi del cinema e dell’audiovisivo), la giornata ha come occasione la presentazione a Napoli del nuovo libro di Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, edito da Donzelli.
Portelli ne dialogherà, alle 17 nel teatro “Niccolini” dell’Accademia, con i docenti Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito (curatori del libro Il cinema secondo Springsteen, Mephite/Cinemasud, 2012), moderati dal saggista e critico Stefano Fedele. La presentazione sarà preceduta, alle 15, dalla proiezione del film La rabbia giovane (Badlands, 1973) di Terrence Malick e di alcuni videoclip di Springsteen.
Alessandro Portelli è un fan specialissimo del rocker del New Jersey. Considerato tra i fondatori della storia orale, è professore di Letteratura angloamericana all’Università “La Sapienza” di Roma, ha fondato e presiede il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa della cultura popolare; e collabora con la Casa della Memoria e della Storia di Roma e col quotidiano il manifesto.
Col suo nuovo libro, slittando dalla musica alla letteratura e dalla storia al presente, mette la sua nota affabulazione al servizio del cantore dell’America che più ama, quella tutta fondata sul lavoro; un’America in cui la promessa della mobilità sociale e della realizzazione di sé è spesso frustrata e tradita e nella quale il “sogno americano” si fa ogni giorno più sfuggente. Attraverso una rilettura dei testi che Portelli sa ancorare al contesto culturale e storico, il libro guarda al mondo di Springsteen sotto la lente del lavoro che divora le vite dei suoi personaggi; ma mette in evidenza anche il sound travolgente dell’artista americano, capace di evocare, nonostante tutto, l’orgoglio di essere ancora vivi e di non arrendersi mai.

venerdì 24 luglio 2015

A GIFFONI, UN FILM SPRINGSTEENIANO CONQUISTA LA GIURIA

Di Diego Del Pozzo 

In una cittadina rurale dell'Irlanda meridionale, che sembra uscita dalle migliori narrazioni western-noir-melò di Bruce Springsteen, la tormentata adolescente Cleo Callahan (una bravissima Emma Eliza Regan, attrice dalla notevole presenza scenica) è a caccia (quasi letteralmente) dell'omicida della sorella maggiore Ashy, trovata assassinata in maniera brutale in un bagno pubblico. Accecata dalla rabbia e dai sensi di colpa derivanti dal rapporto difficile con la sorella, Cleo (esperta di armi e abilissima tiratrice) non si rende conto del fatto - noto fin dall'inizio agli spettatori - che l'assassina è la sua unica e migliore amica, Robin O'Riley. E proprio questa "cecità" è destinata a trasformare la sua vendetta in ineluttabile tragedia dagli echi quasi shakespeariani.
Emma Eliza Regan in una scena del film
Tra famiglie devastate, traumi infantili, impossibilità di un'autentica redenzione, il ventottenne regista e sceneggiatore Patrick Ryan costruisce il suo film d'esordio "Darkness on the Edge of Town" - a bassissimo budget, appena 18mila euro - muovendosi abilmente tra i rimandi springsteeniani evidenti fin dal titolo, costruzione drammaturgica da western contemporaneo e cupissima atmosfera da tragedia classica. "Ho voluto combinare - racconta l'autore, dopo la proiezione in concorso al Giffoni Experience 2015 - l'estetica di un film western con la struttura della tragedia, provando però a sovvertire sia il genere western che il tradizionale giallo deduttivo. Rivelando subito l'identità dell’assassino, infatti, ho poi basato la tensione sull'anticipazione delle reazioni dei personaggi, approfondendone le psicologie senza troppi dialoghi ma provando a far parlare direttamente le immagini. Per bilanciare la cupa e violenta fatalità della trama, è stato fondamentale per me cogliere il tono giusto, creando un senso di nostalgia e una particolare atmosfera accentuata dalla colonna sonora e dalla fotografia".
Naturalmente, Ryan si sofferma anche sull'evidente rapporto con l'immaginario springsteeniano. "Tra gli album di Bruce Springsteen – spiega – proprio "Darkness on the Edge of Town" è il mio preferito, perché riesce a raccontare meravigliosamente quell'atmosfera oscura e un po' malata che caratterizza la vita suburbana con le sue contraddizioni nascoste, la violenza e le tenebre celate sotto la superficie apparentemente tranquilla di quei luoghi. L'immaginario springsteeniano ha avuto una grande importanza per me, ovviamente anche nella realizzazione di questo film, che gli rende un esplicito omaggio col titolo. Più in generale, comunque, la musica mi aiuta tantissimo nella fase di scrittura e, per me, rappresenta un elemento fondamentale della mia esistenza quotidiana. Ho girato nella contea di Kerry, nel Sud dell'Irlanda, dove sono nato e cresciuto, perché ho sempre desiderato ambientare un western contemporaneo in quei luoghi. Ma la mia Irlanda potrebbe essere tranquillamente il New Jersey suburbano narrato da Springsteen nei suoi album, per le coloriture a tinte noir e le atmosfere cupe e romanticamente disperate. Le affinità tematiche con la sua musica e con un album come “Darkness…” sono riscontrabili anche nella tensione costante tra i personaggi e l’ambiente chiuso e provinciale nel quale vivono, proprio come accade per i losers springsteeniani che, dal New Jersey, guardano alla realtà metropolitana di New York appena oltre l’orizzonte. Il mio – prosegue Ryan – è un film di sguardi e suggestioni, che in alcuni punti prova a fare a meno dei dialoghi per narrare unicamente attraverso le immagini. In tal senso, tutta la parte iniziale, nella quale non si parla mai, l’ho costruita sul modello shakespeariano dell’“Othello”, dove Iago si presenta subito ai lettori come personaggio negativo. Allo stesso modo, ho voluto mostrare in apertura l’omicidio di Ashy e svelare allo spettatore che l’assassina è Robin, tenendo invece all’oscuro la protagonista Cleo, che per tutto il film va alla ricerca di una verità che poi non si rivela essere tale. Ho lavorato molto sui toni della fotografia, sui contrasti di luci e ombre, su soluzioni visive anche ardite, come scene a specchio e inquadrature rovesciate, provando anche a far respirare il più possibile il paesaggio irlandese e quelle nuvole che cambiano costantemente proprio come gli stati d’animo dei vari personaggi".


© RIPRODUZIONE RISERVATA

giovedì 10 luglio 2014

BRUCE SPRINGSTEEN REGISTA CON "HUNTER OF INVISIBLE GAME"

Di Diego Del Pozzo

Era soltanto una questione di tempo prima che accadesse, perché se c’è un artista rock sinceramente e perdutamente innamorato del cinema, dei suoi miti e del suo linguaggio questi è, senz'altro, Bruce Springsteen. Infatti, nel pomeriggio italiano di ieri, sul sito ufficiale brucespringsteen.net, i suoi milioni di fans sparsi in tutto il mondo hanno potuto godersi, in streaming contemporaneo globale, il cortometraggio di quasi 11 minuti che, di fatto, segna l’esordio dell’uomo di Asbury Park come regista cinematografico. Il breve film, firmato assieme a un collaboratore fidato come Thom Zimny, s’intitola “Hunter of Invisible Game”, proprio come il brano incluso nel recente album “High Hopes”.
Di enorme suggestione visiva, il corto è un poetico e intenso western dark, dal quale emerge in maniera evidente e, direi, prepotente l’amore (quasi una venerazione, in realtà) che Springsteen nutre nei confronti di John Ford e, in particolar modo, del suo capolavoro “Sentieri selvaggi”. Bruce appare anche in veste di attore protagonista (ed è davvero bravo!), nei panni di un uomo in lotta con i propri demoni interiori e con i fantasmi del passato. Intorno a lui, prendono letteralmente vita le innumerevoli narrazioni, i personaggi, le suggestioni, i temi che nutrono, fin dall'esordio del 1973 "Greetings from Asbury Park, N.J.", quello che possiamo tranquillamente definire "immaginario springsteeniano". Nella parte finale del film, si odono le note del brano omonimo, che poi scorre integralmente fino al suggestivo “The End” nel quale Bruce si concede addirittura un’uscita di scena a cavallo, come quelle degli eroi tanto amati dei western sui quali s'è formato.
Ma che cosa racconta "Hunter of Invisible Game"? Vediamo.
Un cacciatore malandato e claudicante, all'interno della sua buia baracca di legno, sfoglia un libretto di preghiere nel quale conserva alcune foto stropicciate e ingiallite dal tempo. In una c'è lui, da giovane, quando era più puro e meno provato dalla vita. In un'altra, s'intravede una bimba bionda, che lui guarda con affetto infinito e con altrettanto infinito rimpianto. "La notte scorsa - riflette l'uomo - mi sono svegliato per un forte ticchettio. E uno spaventapasseri in fiamme lungo i binari ferroviari. C'erano le città vuote e le pianure in fiamme...". Ma è soprattutto il suo passato che continua a tormentarlo.
Ricorda ancora quando mise incinta la sua Mary (Janey), quel giorno lungo il fiume. Lei aveva appena 17 anni, lui 19. Si sposarono senza sorrisi e, subito dopo, lui trovò un lavoro da manovale alla Johnstown Company. Poi, la crisi economica spazzò via ogni cosa. Lui fuggì via. La sua donna si trasferì con la mamma nella zona di Shawnee Lake. Non ancora pronta per crescere quella neonata, pensò più volte di abbandonarla in una cesta lungo il fiume, ma questo lui non lo ha mai saputo. La ragazza, però, si fece forza. Senza un compagno, decise di crescere comunque la sua bambina. Lui la conobbe anni dopo, durante una breve riconciliazione con la sua Mary (Janey). La amò subito, ma nonostante ciò, roso dai sensi di colpa, decise di andare via. E adesso, di lei e dell'unica donna mai amata gli restano solo una foto e quei flash violenti che gli squarciano continuamente la mente e i sogni.
Stanotte però, dopo tanti anni, l'uomo ha deciso di tornare da loro. Così, esce dalla baracca, imbraccia il fucile, prende il bastone che gli serve per camminare meglio e sale a cavallo. Dopo molte ore al galoppo, finalmente raggiunge la vecchia casa di Shawnee Lake, ma ciò che trova è soltanto un rudere spoglio e desolato. "Là nella radura, oltre l’autostrada, sotto la luce della luna, la nostra casa risplendeva. Ho attraversato il cortile, mi sono buttato attraverso la porta d’ingresso. Il mio cuore batteva forte. Mi sono precipitato per le scale. La stanza era buia, il nostro letto vuoto. In quell’istante ho sentito quel lungo fischio lamentoso e sono caduto in ginocchio, con la testa tra le mani e ho pianto". E, mentre quel treno che ti porta sempre più giù s'allontana, l'uomo capisce che per lui è arrivato il momento della fine. Corre via, raggiunge il ruscello lì vicino, vi s'immerge a torso nudo e decide di abbandonarsi all'oblio. Intorno a lui, soltanto il suo cavallo e la natura selvaggia degli Stati interni, tra fiumi di montagna, alternanza di fitti boschi e praterie desolate, falò notturni in lontananza e gli occhi che si chiudono nel vuoto a ricordare una bambina e una giovane donna ormai perse per sempre.
Lo risvegliano all'alba i passi di un ragazzino. Gli s'avvicina, lo saluta, gli dice che s'è perso. Accade tutto in un attimo. L'uomo si sciacqua il viso con l'acqua ghiacciata, si ridesta, s'arrampica letteralmente lungo la sponda del ruscello e decide di rimettersi in piedi. Forse, non è troppo tardi per dare definitivamente la caccia a quella preda invisibile che continua a tormentarlo da anni: il ragazzo deve tornare a casa. Così, lo fa montare a cavallo e, dopo alcuni giorni di marcia, lo restituisce all'affetto dei suoi cari. Adesso, l'uomo può ricominciare a vivere. Può andare avanti. Si allontana da quella famiglia di nuovo felice, che lo saluta dall'uscio di casa. Si tuffa nuovamente in mezzo a quella natura selvaggia e rigogliosa che, ormai, lo ha accolto come un figlio. Ma lo fa con spirito nuovo. La preda invisibile non scappa più. Anzi, è diventata una presenza rassicurante che lo accompagna verso il futuro, mentre a cavallo attraversa quei paesaggi sui quali il sole non tramonta mai.
"Hunter of Invisible Game" è un autentico manifesto poetico, nonché una dichiarazione d'amore nei confronti di quel cinema che, d’altra parte, fa da fonte privilegiata per la scrittura visionaria ed estremamente narrativa di Bruce Springsteen fin dai suoi primi album. Basti pensare a brani "mitici" come "Thunder Road", "Badlands" o "Nebraska", per citare semplicemente i più espliciti in tal senso. Ma, come approfondiamo io e Vincenzo Esposito nel nostro libro "Il cinema secondo Springsteen" (so che è antipatico autocitarsi, ma oggettivamente si tratta dell'unica monografia dedicata al rapporto tra Bruce e il cinema), quello col grande schermo, per lui, s'è trasformato, nel corso degli anni, in un rapporto complesso e articolato, fatto di dare e di avere, perché a sua volta il rocker del New Jersey ha ispirato (e continua a farlo) con i temi del proprio personale e ormai vastissimo immaginario film di successo come, volendo limitarsi soltanto a due titoli, "Lupo solitario" di Sean Penn (tratto integralmente dal brano "Highway Patrolman" di "Nebraska") o il più recente "The Wrestler" di Darren Aronofsky (interpretato e fortemente voluto dall'amico Mickey Rourke). E, più ad ampio raggio, ha fatto lo stesso con tanti registi affini alla sua poetica, da John Sayles a Jonathan Demme, dai fratelli Coen al già citato Penn, da James Mangold a Gus Van Sant e Alexander Payne, fino a un gigante profondamente springsteeniano come Martin Scorsese.
Al di là di tutto, però, "Hunter of Invisible Game" è anche la testimonianza tangibile della voglia dell'artista Springsteen di non fermarsi mai e, ancora oggi, di assecondare costantemente la propria curiosità. Prossimo passo, si spera, il primo lungometraggio da regista.
 © RIPRODUZIONE RISERVATA

sabato 19 ottobre 2013

GRANDE SUCCESSO PER IL CINEMA ITALIANO IN SVEZIA

(Off-Topic - 19 ottobre 2013)

Grande successo anche quest’anno per il cinema italiano in Svezia, grazie all’Italian Film Festival di Stoccolma, la principale rassegna dedicata alla promozione della cinematografia italiana nei Paesi scandinavi. Diretto dallo storico del cinema Vincenzo Esposito e giunto alla sedicesima edizione, il festival – che si conclude domani sera (domenica 20) presso il cinema Sture, nel centro della capitale svedese – sta facendo segnare il “tutto esaurito” quasi a ogni proiezione, a conferma del notevole interesse che gli appassionati svedesi continuano a nutrire nei confronti del cinema italiano del presente e del passato.
Inaugurato dal nuovo ambasciatore d’Italia in Svezia, Elena Basile, e dal direttore dell’Istituto italiano di cultura, Sergio Scapin, l’Italian Film Festival ospita i due registi Silvio Soldini e Giuliano Montaldo, che hanno presentato al pubblico svedese i loro recenti “Il comandante e la cicogna” e “L’industriale”. Nella sezione Panorama, riservata ai film delle ultime due stagioni, sono inclusi anche “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo, “Posti in piedi in Paradiso” di Carlo Verdone, “Tutti i santi giorni” di Paolo Virzì, “È stato il figlio” di Daniele Ciprì, “Viva la libertà” di Roberto Andò e – nell’ambito della Settimana della lingua italiana nel mondo – la produzione svizzera “Sinestesia” di Erik Bernasconi (interpretata, in italiano, da Alessio Boni, Giorgia Wurth e Leonardo Nigro).
La Retrospettiva di quest’anno, invece, indaga nel cinema di Michele Placido, attraverso una selezione di film da lui diretti o interpretati per altri registi. Così, accanto a celebri regie di Placido come “Un eroe borghese” (1995), “Romanzo criminale” (2005), “Il grande sogno” (2009), “Vallanzasca. Gli angeli del male” (2010) e “Il cecchino” (2012) scorrono anche “Marcia trionfale” (1976) di Marco Bellocchio, “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio e “La sconosciuta” (2006) di Giuseppe Tornatore.
L’Italian Film Festival è organizzato dall’Istituto italiano di cultura di Stoccolma e dalla FICC – Federazione italiana dei circoli del cinema, col contributo del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale cinema e in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Svezia, il Centro regionale Campania della FICC, l’associazione culturale Blackout e la scuola di cinema Pigrecoemme di Napoli.

mercoledì 19 dicembre 2012

SPRINGSTEEN, VAN SANT E L'AMERICA DELLA CRISI GLOBALE

Di Diego Del Pozzo

Dopo l'anteprima mondiale del 4 dicembre al Lincoln Square Cinema di Washington, uscirà il 28 dicembre in poche sale di New York e Los Angeles, per poter concorrere agli Oscar, il nuovo film di Gus Van Sant, "Promised Land", che sarà poi in distribuzione ufficiale negli Stati Uniti a partire dal 4 gennaio 2013 e in anteprima europea nel concorso della prossima Berlinale.
Matt Damon in "Promised Land" di Gus Van Sant
Protagonisti della pellicola sono Matt Damon e John Krasinski (anche produttori e sceneggiatori, a partire da un'idea dello scrittore Dave Eggers), assieme a Frances McDormand, Rosemarie DeWitt, Scoot McNairy, Titus Welliver e Hal Holbrook. Le loro storie sono inserite nello scenario di una piccola comunità americana che si oppone alle mire di una multinazionale e, dunque, deve fare i conti, in definitiva, con le conseguenze della crisi economica globale. "L'America è un Paese grande e a volte - racconta Gus Van Sant - è difficile definire quale sia la nostra identità. Ciò che ho amato della sceneggiatura di Matt e John è il modo nel quale hanno affrontato grandi temi, ma con umorismo e umiltà, raccontando storie di persone reali, con tutte le loro debolezze e la loro grandezza".
Come si comprende facilmente già dal titolo e dall'argomento affrontato (simile a quelli cantati nel recente album "Wrecking Ball"), "Promised Land" è un film intimamente springsteeniano, realizzato peraltro da un autore che ha numerosi punti di contatto con la poetica di Bruce. Il rapporto è stato reso esplicito dalla sequenza di un duello al karaoke. "Nel copione originale - spiega Matt Damon - avevo scritto che non avevo alcuna intenzione di cantare il karaoke. Però, ci serviva una scena nella quale il personaggio di John appare e persuade i cittadini. Ed è molto più facile farlo con una canzone. In particolare, che cosa c'è di meglio di una canzone di Bruce Springsteen?". Il brano in questione è "Dancing in the Dark", che l'autore ha concesso gratuitamente. "La cosa più divertente - aggiunge John Krasinski - è stata scrivere indicazioni di regia come "Questo personaggio è tremendo al karaoke". E l'aspetto più eccitante è stato proprio che, dopo tutto ciò, non c'era più bisogno di una particolare abilità nel canto. Poi, quando abbiamo tirato fuori "Dancing in the Dark" di Bruce Springsteen, abbiamo subito realizzato che era la canzone perfetta, davvero fenomenale".
C'è anche un'altro momento di "Promised Land" che pare fatto apposta per rendere evidente il debito d'ispirazione nei confronti dell'universo springsteeniano: a un certo punto, infatti, c'è una sequenza nella quale Bruce Springsteen viene menzionato durante un dialogo tra i protagonisti. A ulteriore conferma di quanto il rapporto tra Springsteen e il cinema continui a essere fecondo e produttivo e di quanto la settima arte, in particolar modo se deve raccontare l'America oggi, continui a prendere da Bruce e dalla sua poetica.

martedì 11 settembre 2012

CINEBOSS: ANCHE PER "SUONO" E' UN LIBRO IMPORTANTE...

La positiva recensione di Lucadei pubblicata su "Suono" di settembre

lunedì 10 settembre 2012

CINEBOSS: ZAMBELLINI ELOGIA IL LIBRO SU "BUSCADERO" DI SETTEMBRE

La bellissima recensione di Mauro Zambellini, firma prestigiosa dello storico mensile rock "Buscadero"