Nel suo primo album, pubblicato nel '62, si avvertiva un atteggiamento fortemente adulto, il senso di una precoce maturità non tanto stilistica quanto umana. Nel suo modo di cantare e di suonare l'armonica o la chitarra respirava una tradizione antica, una commossa devozione ai grandi mestri del folk e del blues. Un ventenne che assimiliava Bertolt Brecht e Woody Guthrie, che imparava a memoria decine di canti tradizionali, che studiava Tucidide e Machiavelli. Il giovanilismo non è mai stato un tratto distintivo del suo approccio: alla vita e alla musica. A 22 anni era una star nel suo paese, a 24 lo era nel mondo, a 25 iniziò una fase di lungo ritiro dalle scene, a 28 era padre di cinque figli. Quando ne aveva 30 il pubblico hippy e barricadero lo considerava un vecchio reazionario traditore. E a 32 scrisse quella canzone, Forever Young. Che a questo punto si può forse tradurre con "per sempre vivo" piuttosto che "per sempre giovane".
Dylan si è sempre proiettato in avanti, è sempre stato più grande della vita, come si dice in America, per il semplice motivo che era più grande di tutti gli altri. E lo sapeva fin dall'inizio. A forza di portarsi avanti con il lavoro ha raggiunto i 70 ben saldo nella sua fama e nel suo prestigio. In direzione opposta a quella dei suoi amici Rolling Stones, che rimangono sulla breccia a patto di rifare se stessi, Dylan riscrive in continuazione la sua opera e la sua vita. Anche se in qualche modo si è bruciato (troppe donne, troppo alcol, troppe droghe, troppi dischi, troppi tour?) in un altro senso non si è bruciato affatto. Anzi, ha come trovato una formula magica.
Lui c'era prima dei Beatles e degli Stones e c'è ancora. Ha 70 anni, da 50 fa musica, ogni anno effettua un tour mondiale, ogni suo nuovo disco schizza in vetta alle classifiche facendo a pezzi "colleghi" che hanno l'età dei suoi nipoti. Trovatene un altro così, se vi riesce. Forever Young, Forever Old, quello che vi pare. Ma io direi FOREVER e basta.
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