ADDIO A DENNIS HOPPER
Di Valerio Caprara
Non è frequente che nella storia del cinema moderno un solo film contrassegni in via definitiva lo spirito di un'epoca insieme al suo patrimonio artistico, sociologico e mitologico. E' noto a tutti che ciò sia avvenuto con Easy Rider, il film diretto nonché interpretato al fianco di Peter Fonda da Dennis Hopper nel 1969, divenuto da subito il simbolo della contestazione pacifista e hippy e il manifesto programmatico di una cruciale rivoluzione stilistica. Hopper, scomparso ieri dopo una lunga e strenua battaglia (com'era nelle sue corde) sostenuta contro il cancro, resta peraltro una figura chiave del cinema mondiale, proprio perché da quella scintilla e quell'exploit è partita la lunga marcia dei nuovi maestri come Scorsese, Coppola, Peckinpah, Penn, Spielberg, Lucas destinati a prendere il potere a Hollywood, a rinnovarne radicalmente il carisma e quindi a influenzare l'immaginario collettivo mondiale sino ai giorni nostri.
Hopper nasce a Dodge City, Kansas, nel maggio del 1936 e afferma la sua personalità ribelle e anticonformista interpretando tra il '55 e il '68 una serie di grintosi cammei e ruoli di carattere in film di genere - da Gioventù bruciata a Il gigante e Sfida all'O.K. Corral, da I quattro figli di Katie Elder a Nick mano fredda - che non di rado si sono trasformati in cult-movies per la loro classica linearità narrativa e la loro rimpianta densità emotiva. L'incontro decisivo è quello col Bert Schneider, figlio di Stanley, boss della Columbia Pictures, giovane e illuminato neo-produttore inopinatamente convintosi a fare un film a basso costo su due motociclisti in viaggio sulle strade del Grande Paese sulla base dello spirito del tempo tutto sesso, droga e rock 'n' roll. Nonostante l'allegra brigata girasse spesso completamente strafatta e Hopper sembrasse ammaliato da inquadrature e sequenze prive di senso comune, Easy Rider esplode a livello mondiale, si fonde con le utopie di una generazione e realizza nella peculiarità del suo linguaggio rapsodico e provocatorio esattamente quello che era scritto sulla locandina: "Un uomo è andato in cerca dell'America ma non è riuscito a trovarla da nessuna parte". Rovesciando la tematica pionieristica dell'on the road e dell'amicizia virile alla Fenimore Cooper e, anzi, mutandola in uno sregolato vagabondaggio alla ricerca delle magiche radici territoriali occultate dalla retorica imperialista e familista, Hopper e il fedele complice Fonda usano le componenti esteriori (la moto/cavallo, i giacconi di pelle nera, il linguaggio sboccato e irridente, la denuncia della classe media) per accompagnare sino all'inevitabile discesa agli inferi le istanze libertarie e individualistiche alle quali il vecchio cinema "democratico" non poteva e sapeva più dare risposta.
Dopo un curioso e velleitario esperimento autoriale realizzato in Sudamerica, Fuga da Hollywood (The Last Movie ,'71), che si rivela un fiasco commerciale, Hopper sembra rientrare nei ranghi e riemergere sullo schermo solo per offrire la sua verve istrionica ai colleghi più assidui e fortunati (il fotografo di Apocalypse Now). Non è così, per fortuna, perché l'instancabile e qualche volta sbrigativa attività d'attore continuerà a essere inframmezzata da sortite dietro la macchina da presa mai banali o ammiccanti, anche se non più investite dal fuoco espressivo di Easy Rider. Parliamo, infatti, di Out of the Blue (1980), allucinante calvario di una giovane oppressa da genitori infami; di Colors - Colori di guerra (1988), uno dei più freddi e spietati thrilling sul fenomeno delle bande metropolitane; del delirante e parodico Ore contate (1989) con Jodie Foster e soprattutto dell'eccezionale e misconosciuto The Hot Spot - Il posto caldo (1990), un noir intriso di superbe atmosfere erotiche e morbose. Non a caso questo leitmotiv ai limiti dello psicopatico è lo stesso che scandisce molte delle decine e decine d'incarnazioni messe al servizio di registi più manieristici che creativi (Non aprite quella porta, Una vita al massimo, Bad City Blues, Il cuore nero di Paris Trout, ecc.). Quando, però, si sprigiona il feeling giusto, Dennis Hopper è sempre in grado di opporre una lucida e ipercinetica follia alla minaccia di normalizzazione aleggiante sulla forma di spettacolo che ha risvegliato dal coma a suo tempo: L'amico americano di Wenders, Rusty il selvaggio di Coppola, Osterman Weekend di Peckinpah, Velluto blu di Lynch, Blackout di Ferrara.
Buongiorno Vincenzo e Diego,
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